L’universo dei videogiochi indie è costellato di titoli che sfidano le convenzioni, non tanto per innovazione tecnologica o narrazione, quanto per l’essenzialità della loro proposta. In questa galassia di produzioni low-budget, vi sono giochi concepiti più come opportunità per completisti e cacciatori di trofei che come opere rivolte a un pubblico vasto. Bunny Mazes, sviluppato dal team indipendente DillyFrame, si posiziona esattamente in questo segmento. Pubblicato su PC (Steam), PlayStation 5 e PlayStation 4, il gioco richiama l’estetica e le dinamiche degli home computer degli anni ‘80, offrendo un’esperienza volutamente arcaica, quasi archeologica nella sua essenza. Non è un’opera che punta a stupire per complessità o profondità, bensì un passatempo che sembra uscito da un manuale didattico per aspiranti sviluppatori, intriso di un fascino retrò che per molti potrebbe risultare più nostalgico che innovativo.
Una struttura basilare per un concept diretto
La struttura ludica di Bunny Mazes è tanto semplice quanto impietosa. Il titolo propone 50 livelli suddivisi in 500 labirinti, con l’obiettivo primario di raggiungere l’uscita entro un limite di tempo prestabilito. Ogni livello è un’escalation di difficoltà, dove dimensioni crescenti dei labirinti e ostacoli progressivamente più complessi mettono alla prova la pazienza e la strategia del giocatore. Tuttavia, la ripetitività dell’esperienza si manifesta quasi subito: ogni labirinto si riduce a un esercizio di memoria spaziale e calcolo del rischio, con bonus temporali che possono sia aiutare che sabotare l’avanzamento. Interessante è la decisione di inserire carote che, a seconda del colore, allungano o riducono il tempo a disposizione, costringendo il giocatore a ponderare la propria rotta. Tuttavia, questo elemento di scelta strategica non basta a mascherare la monotonia intrinseca di un gameplay che si risolve in un’iterazione quasi meccanica.
Un’estetica spartana tra nostalgia e alienazione
Sul fronte tecnico, Bunny Mazes sfiora i confini del minimale. La grafica è priva di dettagli significativi: i labirinti sono realizzati in bianco e nero, evocando i giochi rudimentali degli anni ‘80, mentre il protagonista – uno sprite di coniglio – è statico e privo di animazioni. La scelta estetica, per quanto possa essere interpretata come omaggio al passato, rischia di alienare i giocatori moderni, abituati a standard visivi più elaborati anche nei contesti indie. Nonostante ciò, il design spartano ha una sua coerenza: elimina distrazioni visive e punta tutto sull’essenzialità del gameplay. Tuttavia, questa scelta non basta a rendere il gioco visivamente accattivante o memorabile, relegandolo a un’esperienza puramente funzionale.
Un’opportunità per pochi
Chi trarrà maggior beneficio da Bunny Mazes? Certamente i cacciatori di trofei. Il titolo offre obiettivi facilmente raggiungibili, un’attrattiva irresistibile per chi ama arricchire la propria collezione digitale. Per il pubblico generico, invece, il gioco rischia di risultare frustrante o, peggio, irrilevante. Il basso costo di acquisto può rappresentare un punto a favore, ma è difficile giustificare l’investimento anche minimo per un prodotto che sembra più un’esercitazione tecnica che un’opera compiuta. Non mancano però elementi di merito: la scelta di proporre una sfida lineare e priva di artifici è coerente con la visione degli sviluppatori, e il sistema di selezione dei livelli completati aggiunge un minimo di flessibilità alla progressione.
Conclusioni tra passato e presente
Bunny Mazes non è un gioco per tutti. La sua estetica essenziale e il gameplay rigorosamente lineare lo rendono un prodotto di nicchia, adatto a un pubblico specifico che apprezza il minimalismo estremo o cerca un’esperienza rapida e priva di complessità. Tuttavia, per la maggior parte dei giocatori, l’offerta di DillyFrame può risultare obsoleta, se non addirittura trascurabile. Resta il fatto che il titolo, nella sua semplicità, incarna un pezzo di storia del medium videoludico: un richiamo a un tempo in cui il gameplay contava più della grafica, ma che oggi, forse, non basta più a soddisfare le aspettative di un mercato sempre più esigente.