La Keytar si illumina nel buio, pulsando al ritmo delle stelle. Cebete non dorme, sospesa com’è tra dune sonore e silenzi cosmici. Ogni crinale racconta una melodia dimenticata, ogni salto col hoverboard è un accordo teso fra memoria e desiderio. Bios scivola sul vento artificiale, alla ricerca di Nous. Ma più che un viaggio verso l’amata, è una fuga da un passato muto, in un mondo che sussurra risposte tra i pixel e la polvere. Su questa premessa prende forma Star Overdrive, nuova avventura sci-fi sviluppata dal team italiano Caracal Games e pubblicata da Dear Villagers, disponibile su PC, PlayStation 5, Xbox Series X|S e Nintendo Switch. Testato su console Sony, il titolo si presenta come un’esperienza fortemente estetica e meccanicamente singolare, a cavallo fra speed platform, open world e racconto lirico.
Un pianeta da decifrare
La narrazione, volutamente rarefatta, si articola attraverso registrazioni audio sparse, affidate alla voce malinconica di Nous, la compagna scomparsa di Bios. La scelta di mantenere il protagonista silenzioso contribuisce a un’atmosfera onirica, ma rende più arduo empatizzare con il suo percorso. L’intreccio si sviluppa con ritmo intermittente: tra attivazioni di balise, enigmi ambientali e scambi sonori, il flusso narrativo sembra subordinato alla libertà di movimento, preferendo evocazione e suggestione a una trama rigidamente strutturata.
Le informazioni sul mondo di gioco emergono attraverso la scoperta e l’osservazione: Cebete è un pianeta fratturato, costituito da tre biomi radicalmente diversi, che alternano sabbie mobili e strutture fluttuanti, meccanismi gravitazionali e architetture aliene. Ogni ambientazione impone un approccio distinto, con puzzle e piattaforme che sfruttano le alterazioni della fisica come linguaggio ludico. La varietà paesaggistica è notevole e restituisce la sensazione di un mondo in costante mutamento, sospeso fra scienza e arte.
Acrobazie, ritmo e intuizione
Il cuore pulsante di Star Overdrive è l’hoverboard, mezzo di locomozione e strumento d’espressione insieme. Sfrecciare lungo crinali, concatenare acrobazie e raggiungere zone altrimenti inaccessibili diventa il fulcro dell’esperienza. Il sistema di movimento, fluido e gratificante, ricorda il feeling di titoli come Solar Ash o Jet Set Radio Future, ma trova una propria cifra nell’unione fra controllo, gravità alterata e interazione musicale. La possibilità di personalizzare l’hoverboard, modificandone estetica e prestazioni, aggiunge profondità a un impianto già convincente.
La Keytar, strumento-arma-chiave, rappresenta il secondo pilastro del gameplay. Attraverso essa si attivano poteri come la levitazione di massi, l’interruzione temporale o la proiezione energetica. Il combattimento, tuttavia, si rivela l’aspetto meno riuscito dell’opera: privo di un vero sistema di lock-on e penalizzato da un’intelligenza artificiale poco reattiva, fatica a offrire sfide realmente stimolanti. Le boss fight, viceversa, brillano per inventiva e gestione del ritmo, sfruttando al massimo la sinergia fra board e abilità speciali.
L’aspetto più ambizioso del titolo risiede nell’interazione tra movimento, esplorazione e fisica. La risoluzione degli enigmi ambientali richiede intuito, precisione e talvolta un pizzico di sperimentazione, specie nei segmenti in cui gravità e impulso si intrecciano. L’equilibrio tra velocità e riflessione genera un flusso ludico a tratti esaltante, spezzato solo da alcune sezioni meno ispirate o da una gestione talvolta confusa della mappa e degli obiettivi.
Fascino visivo e limiti di sistema
Tecnicamente, la versione per PlayStation 5 garantisce prestazioni solide, con frame rate stabile e caricamenti rapidi. La direzione artistica opta per uno stile cel-shaded dai toni saturi, che conferisce al mondo una qualità pittorica, quasi da graphic novel animata. Le architetture aliene, le geometrie impossibili e i contrasti cromatici confermano un’identità visiva ben delineata, che restituisce al giocatore un costante senso di meraviglia.
Sul fronte audio, il gioco offre una colonna sonora eclettica e coerente con l’universo diegetico: sintetizzatori pulsanti, riff di chitarra elettrica e composizioni ambient accompagnano l’esplorazione con efficacia. Particolarmente riuscita è la possibilità di raccogliere e ascoltare brani inediti, arricchendo l’immersione. Meno riuscita, invece, è la gestione del crafting, sistema poco intuitivo che penalizza l’esperienza con interfacce macchinose e materiali ridondanti. L’aggiornamento dell’hoverboard, sebbene centrale, viene rallentato da una progressione non sempre chiara, che richiede aggiustamenti in futuro.
Anche la skill tree soffre di un design poco incisivo: gran parte delle abilità risultano accessorie, e non incentivano una reale diversificazione dello stile di gioco. Similmente, le modifiche temporanee tramite mod, vincolate da una “carica” esauribile e non ricaricabile, appaiono più come orpelli che strumenti determinanti. Il senso di crescita, pur presente, si affievolisce nella seconda metà della campagna, complice una difficoltà tendenzialmente bassa e un sistema economico che abbonda di risorse senza offrirne un impiego gratificante.
Eppure, nonostante le imperfezioni, Star Overdrive riesce a lasciare un’impressione duratura grazie alla coerenza fra estetica, meccaniche e filosofia progettuale. È un viaggio che privilegia il gesto, la traiettoria, il vento contro il visore. Ed è in quell’istante di sospensione, tra salto e atterraggio, che la sua voce silenziosa si fa più chiara.
