Sapeva che il venerdì sarebbe arrivato presto. Lo sentiva nelle lancette che graffiavano il muro, nel sibilo silenzioso delle luci al neon che pendevano come giudici dalla soffitta. Ogni mattina una bugia da perfezionare, ogni sera una speranza da nascondere. La pistola era lì, da qualche parte. Il solo pensiero della sua presenza dava forza e terrore insieme. Bastava un errore, un oggetto fuori posto, una porta lasciata socchiusa, e tutto sarebbe finito. Cinque giorni. Un ufficio. Un’uscita possibile. Forse.
There’s a Gun in the Office, sviluppato da Ragir e pubblicato da Take IT Studio!, è disponibile su PlayStation 5, Xbox Series X|S, Nintendo Switch e PC, e si presenta come un’opera densa e concentrata, che affida il suo carico emotivo non tanto agli eventi quanto al silenzio, all’attesa, all’inesorabile meccanica del sospetto. Il giocatore, intrappolato in una stanza e immerso in una routine claustrofobica, deve trovare il modo di fuggire senza mai lasciare tracce del proprio passaggio. Un’impresa che unisce tensione psicologica e rigore logico.
Un’idea semplice, un’esecuzione elegante
Il gameplay di There’s a Gun in the Office è costruito attorno a una tensione crescente, più mentale che visiva. Non ci sono mostri o fantasmi, né jumpscare o inseguimenti: l’orrore nasce dalla consapevolezza di essere osservati, giudicati da un ambiente che non perdona dimenticanze. Il giocatore è chiamato a muoversi con precisione chirurgica, risolvendo enigmi ambientali e manipolando oggetti, ma sempre con l’obbligo di riportare tutto com’era. Ogni esplorazione è un calcolo, ogni passo fuori dalla stanza un rischio misurato.
Il sistema di gioco non offre spiegazioni esplicite: il design minimalista e l’assenza di tutorial favoriscono un’immersione totale e un coinvolgimento attivo, che premia l’intuito più dell’esperienza. Non mancano momenti di frustrazione, specie quando un dettaglio sfugge o una sequenza richiede più tentativi, ma è proprio questo rigore a dare valore alle scoperte. Il tempo, scandito da un ciclo quotidiano, è il vero antagonista del protagonista: incombente, impersonale, implacabile.
La durata di ogni partita, suddivisa in cinque giornate, introduce un’inevitabile ripetizione degli spazi ma anche una crescente confidenza con l’ambiente, che favorisce l’osservazione dei minimi cambiamenti. Il titolo non concede salvataggi intermedi: ogni progresso è frutto di apprendimento e attenzione, senza margine per l’improvvisazione. È un sistema che premia la memoria visiva e la pazienza, e che scoraggia l’errore impulsivo. La sensazione di tensione cresce con l’avvicinarsi del venerdì, quando ogni gesto può essere l’ultimo.
L’estetica dell’angoscia
Lo stile visivo adottato da Ragir è funzionale all’atmosfera: ambienti spogli, tonalità neutre e un’illuminazione studiata per evocare inquietudine senza sensazionalismi. Le texture sono essenziali ma curate, capaci di restituire un senso di fredda realtà. La grafica volutamente spoglia aiuta a mantenere alta la concentrazione sui dettagli, mentre il comparto audio riduce all’osso ogni distrazione, puntando su rumori ambientali e silenzi carichi di significato. Non c’è colonna sonora a sostenere l’azione: solo l’eco dei propri passi, il fruscio delle pareti, il ticchettio lontano del tempo.
A impreziosire l’esperienza concorre l’uso sapiente del ritmo: ogni giornata ha una cadenza ben precisa, ogni esplorazione è un rituale da compiere senza sbavature. Questo approccio strutturale non solo serve la tensione narrativa, ma rafforza anche il senso di oppressione che pervade tutto il gioco. Nonostante la brevità complessiva dell’esperienza – una manciata di ore per completare il tutto – There’s a Gun in the Office riesce a imprimere nella memoria le sue immagini e i suoi silenzi.
La scelta di non fornire una trama esplicita ma solo suggestioni e implicazioni contribuisce a rendere l’esperienza più universale e interpretativa. Non ci sono dialoghi, né cutscene invadenti: tutto ciò che accade passa attraverso l’interazione e la deduzione. Una struttura rarefatta che chiede fiducia e partecipazione attiva, ma che ripaga con un’atmosfera difficilmente replicabile altrove.
Pochi elementi, grande impatto
Pur non offrendo una vasta varietà di situazioni o ambientazioni, il gioco di Ragir colpisce per coerenza e intensità. Ogni elemento presente ha uno scopo chiaro, ogni meccanica è tesa a sostenere il fragile equilibrio tra libertà e rischio. L’assenza di veri e propri salvataggi o checkpoint intermedi aumenta l’ansia di sbagliare, ma al tempo stesso valorizza il successo. Non tutti apprezzeranno questa filosofia ludica: chi cerca adrenalina o spettacolo troverà poco su cui aggrapparsi. Ma chi ama l’horror riflessivo, quello che lavora sulle piccole cose e sul tempo sospeso, troverà qui un raro esempio di misura e intelligenza.
Il finale, pur lasciando spazio all’interpretazione, chiude con coerenza l’arco narrativo e restituisce un senso di compiutezza. La pistola, più che un’arma, diventa un simbolo di scelta, di possibilità. Il gameplay, nella sua asciuttezza, trova un perfetto bilanciamento tra sfida e contemplazione. E anche se la rigiocabilità è limitata, l’impronta emotiva che lascia è più duratura di quanto ci si aspetterebbe da un gioco tanto essenziale.
